Il linguaggio assente



di Roberto Villa

Da tempo la Cultura Fotografica ha bisogno di un punto di riferimento che non si limiti ad una location adatta solo ad esporre foto ma una Casa della Fotografia che si occupi di promuovere Cultura e antichi elementi, quanto sconosciuti, come la Teoria dell’Informazione (1949), Semiologia, Linguaggio e via dicendo, e non si occupi solo di foto appese ad un muro di vetrine di fotocamere o di foto storiche e della Storia della Fotografia.

Chi fotografa oggi, e fotograferà domani, non può solo fare click senza sapere che cosa stia scrivendo nelle sue foto, e non capire cosa abbiano scritto altri.

Ma di più.

Chi fotografa non può non comprendere cosa scrivono di fotografia i giornalisti di settore e taluni sedicenti critici, i ciarlatani del brutto e del bello o, peggio, i sedicenti insegnanti di fotografia!

C’è chi insegnerebbe a fare click (mai meglio dei manuali nelle confezioni delle fotocamere) tralasciando i perché e l’espressione di pensieri o la trasmissione di emozioni.

La pochezza culturale e la mancanza della conoscenza del linguaggio specifico raramente consentono di superare il solo click!

Apparentemente uno degli ambienti dove la comunicazione risulta la più quantitativamente intensa è certamente quello della fotografia digitale che, di converso, vede la qualità creativa più bassa in assoluto.

La specifica digitale è diventata determinante poiché la nuova tecnologia disponibile su tutti gli smartphone non solo ha eliminato tutti i costi di acquisto della pellicola, dello sviluppo, della provinatura e delle stampe, ma ha contemporaneamente azzerato i tempi di attesa.

Le immagini sono diventate immediatamente fruibili sul visore della fotocamera, sul più grande display dello smartphone, sul notebook, su Internet ecc., facendo pensare ad una comunicazione per immagini. Niente di più lontano dal vero.

Ne risulta una comunicazione senza alcun “pudore fotografico”, quel pudore che provava, chi, avendo in mano una macchina fotografica, al tempo della pellicola, attendeva prima di fare lo scatto.
Un pudore che spingeva l'occhio alla ricerca di una inquadratura intelligente, con un soggetto importante, qualcosa che facesse fotografia, uno scatto che, passato alla stampa, testimoniasse le qualità creative dell’autore e il valore dell’atto.

Infatti, non è da dimenticare, ogni fotografia è l’immagine speculare, l’impronta digitale, della cultura di chi ha fatto lo scatto, della cultura di chi ha scritto il messaggio, un messaggio visivo.

Il digitale ha cancellato quelle esitazioni, proprie più del dilettante che del professionista, ed ha moltiplicato gli scatti. Un altro modo di fare fotografia si è presentato direttamente all’occhio del nuovo fotografo informatico.

Tutto fa fotografia. Tutti fanno “fotografie”. Tutti “leggono fotografie”.
Se tutti scrivono e leggono fotografie appare lecito dedurre che tutti siano in possesso di un codice che, secondo i fondamenti della teoria dell’informazione, non solo consenta la scrittura, o codificazione, di un messaggio, cioè la fotografia, ma ne consenta anche la lettura, quindi la comprensione del messaggio stesso.
Nulla di meno vero.

L’uso corrente della fotografia è di tipo strettamente mimetico e non va oltre la semplice rappresentazione dell’oggetto o del soggetto fotografato.
Non senza alcune contraddizioni.

Appare molto chiaramente che la comunicazione in fotografia sia limitata ad un solo modello, quello della mera riproduzione del reale, nella migliore delle ipotesi.

Più la foto si avvicina all’originale fotografato e più la foto è “bella”, la fotocamera è perfetta e l’autore è stimato un bravo fotografo o addirittura un grande fotografo.

Viceversa quanto più una fotografia si allontana dalla semplice riproduzione del soggetto antistante l’obiettivo, tanto più si avvicinerebbe all’area della “artisticità” ed entrerebbe, spesso banalmente, nella mera riproduzione tecnologica del concetto dell’opera d’arte, nel tentativo di generare un unicum da una sequenza di scatti tutti uguali, con buona pace di Walter Benjamin e delle sue tesi del 1934.

Non è difficile affermare che, se qualcosa manca al mondo della fotografia non è solo la Cultura con la C maiuscola – come ha detto Gillo Dorfles, già nel lontano 1968, al Teatro della Triennale a Milano ad una platea di fotografi esterrefatti – manca la conoscenza del fare fotografia, il processo semiologico, linguistico che attiene al mezzo fotografico, quel linguaggio la cui presenza si può definire assente.



Roberto Villa - 18 maggio 2018